Criteri che aiutano a distinguere difficoltà e Disturbi Specifici dell’Apprendimento

Quando si parla di difficoltà di apprendimento o di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) si fa riferimento a due condizioni ben distinte tra loro.

Innanzitutto i DSA sono delle caratteristiche neurofunzionali. Essi non dipendono da deficit intellettivi, da compromissioni della vista o dell’udito e nemmeno da forti disturbi emotivi o da scarse opportunità di istruzione.  

Ma quali condizioni caratterizzano un Disturbo Specifico dell’Apprendimento? Un DSA presenta contemporaneamente:

1. Innatività: il bambino che in età scolare manifesta un Disturbo Specifico dell’Apprendimento porta con sé già dalla nascita determinate caratteristiche. Queste influenzeranno in modo notevole l’acquisizione della lettura, della scrittura o del calcolo.

2. Resistenza al cambiamento: di fronte ad un Disturbo Specifico dell’Apprendimento non si ottengono cambiamenti rilevanti solo modulando e adattando la didattica a scuola. In altre parole, l’intervento didattico specifico messo in atto dagli insegnanti non determina un miglioramento significativo nelle prestazioni scolastiche del bambino.

Esperti come Patrizio Tressoldi, psicologo ricercatore dell’Università di Padova, e Claudio Vio, neuropsicologo presso l’UOC di Neuropsichiatria Infantile di San Donà di Piave, distinguono due fasi di lavoro al termine delle quali si può stabilire la presenza di una resistenza al cambiamento.  Inizialmente i docenti propongono un insegnamento uguale per tutti. In seguito, se un bambino mostra delle difficoltà bisognerà lavorare attraverso un intervento personalizzato, sulla base della specifica criticità evidenziata dall’alunno. Dopo due-tre mesi di potenziamento mirato, e svolto senza interruzioni, se l’alunno non manifesta progressi si può parlare di resistenza al cambiamento. Solo dopo aver realizzato questi interventi didattici specifici si indirizzerà la famiglia verso una valutazione specialistica.

3. Resistenza all’automatizzazione: nei primi anni di scolarizzazione gli alunni automatizzano i loro apprendimenti nelle aree della lettura, della scrittura e del calcolo. Che cosa significa aver automatizzato un apprendimento? Pensiamo a quando pedaliamo in bicicletta o a quando guidiamo l’automobile: senza rendercene conto viaggiamo, riusciamo anche a fare un’altra attività contemporaneamente: entrambi sono esempi di apprendimenti automatizzati.

Può essere interessante evidenziare le principali caratteristiche di un apprendimento diventato automatico. Esso è stabile e quindi non si dimentica, ma è anche veloce ed accurato. Inoltre avviene senza consapevolezza da parte nostra e richiede un minimo di dispendio cognitivo, in termini di memoria e di attenzione.

Si ottengono indubitabili vantaggi da processi automatici. Pensiamo a quando leggiamo. Se il processo è un automatismo, si possono investire risorse cognitive in altre attività: ad esempio nel fare confronti e collegamenti con ciò che già si conosce, per agevolare la comprensione e la memorizzazione. Un processo automatico può diventare tale grazie all’esposizione ripetuta a ciò che il bambino deve imparare e per mezzo di azioni didattiche frequenti e intense.

Per comprendere meglio il concetto di resistenza all’automatizzazione, può essere utile focalizzare l’attenzione su quanto sottolineato da Tressoldi e Vio nell’articolo È proprio così difficile distinguere difficoltà da disturbo di apprendimento? Gli autori evidenziano il differente progresso nella rapidità di lettura registrato in soggetti normolettori e in lettori dislessici: “Per quanto riguarda la lettura di un brano, i dati italiani indicano una progressione di circa mezza sillaba al secondo per ciascun anno scolastico, almeno fino al terzo anno della scuola secondaria di primo grado (Sartori, Job e Tressoldi, 2007). I bambini e i ragazzi con dislessia, invece, progrediscono nella loro velocità di lettura a un ritmo che è circa la metà dei normolettori (Sartori, Job e Tressoldi, 2007), segno inequivocabile della resistenza all’automatizzazione”.

Un’altra riflessione di Tressoldi e Vio “Se, come abbiamo visto, il disturbo ha una base neurofunzionale precisa, per modificarla, sfruttando la plasticità neurale, saranno richieste esercitazioni o attività mirate con una certa frequenza e durata.”

Dunque, anche in presenza di un Disturbo Specifico dell’Apprendimento si possono ottenere dei miglioramenti, non siamo di fronte a limiti invalicabili; i progressi però avvengono in modo lento e difficile.

Ma ora spostiamo l’attenzione sulla condizione di difficoltà generica, e non specifica, di apprendimento. Molti errori commessi dai bambini con DSA sono comuni anche ad altri alunni, che però non hanno un Disturbo Specifico dell’Apprendimento.  Come viene sottolineato nelle Linee Guida per il diritto allo studio di alunni e studenti con DSA, il 20% dei bambini che frequenta le classi prima e seconda di scuola primaria evidenzia difficoltà nell’ambito della lettura, della scrittura o del calcolo. Nel corso del tempo però solo al 3%- 4% di questi bambini verrà diagnosticato un DSA.

Quando siamo di fronte ad un alunno con difficoltà di apprendimento le attività didattiche di potenziamento mirato non incontrano resistenza al cambiamento e nemmeno all’automatizzazione; le prestazioni scolastiche dell’alunno, anche se con tempi più ampi rispetto a quelli dei compagni di classe, migliorano e i processi di apprendimento si automatizzano.

Fonti bibliografiche

TRESSOLDI Patrizio E. – VIO Claudio, È proprio così difficile distinguere difficoltà da disturbo di apprendimento?, in Dislessia, vol. 5, n. 2, maggio 2008, Erickson, Trento

ENRICO GHIDONI, Automatizzazione dell’apprendimento: meccanismi cognitivi, basi neurobiologiche e rilevanza per i disturbi specifici in Dislessia, vol. 14, n. 1, gennaio 2017, Erickson, Trento

Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbo Specifico dell’Apprendimento, allegate al Decreto Ministeriale 5669 del 12 luglio 2011